Trascrizione video (testo sistemato con Claude 4.5 Sonnet): L'arte del cambiamento Trascrizione intervento di Giorgio Nardone Il...
Trascrizione video (testo sistemato con Claude 4.5 Sonnet):
L'arte del cambiamento
Trascrizione intervento di Giorgio Nardone
Il cambiamento come costante della vita.
Vi è una frase attribuita a Eraclito che recita così: "L'unica costante è il cambiamento". Cosa vuol dire? Che l'unica cosa che non cambia è il fatto che tutto cambia. In particolare, questo lo possiamo sperimentare nel quotidiano, lo possiamo sperimentare nel corso della vita: quando nasciamo, cresciamo, ci sviluppiamo, e poi l'ultimo cambiamento – il saluto finale. Quindi è tutto un processo di cambiamento.
Pensate che ci sono degli studi che attestano che ogni 7-10 anni tutte le cellule del nostro corpo cambiano. Quindi il cambiare continuamente fa parte proprio della dinamica dell'essere umano, della dinamica della natura. Pensate al ciclo delle stagioni, pensate all'alternanza degli stati d'animo, pensate agli stati psicologici che una persona può vivere nel corso della vita, pensate alle dinamiche di relazione che possono cambiare nel corso della vita, pensate a quante credenze possono cambiare – possiamo credere a una cosa e dopo un po' credere completamente l'opposto. Pensate a come cambiano gli scenari internazionali a livello politico, a livello sociale. Chi avrebbe mai immaginato il Covid? È un cambiamento epocale.
Quindi il cambiamento è qualcosa che è connaturato, potremmo dire, nel funzionamento della natura, dell'essere umano. E cos'è che spaventa in assoluto? Il cambiamento. Cambiare spesso rappresenta proprio una paura, ed è per questo che quando parliamo di cambiamento non possiamo non parlare – come aveva già introdotto Riccardo – della sua resistenza. La resistenza al cambiamento fa parte del cambiamento. Il cambiamento spesso spaventa. Alcune volte il cambiamento, quello che può sembrare come dire un limite, può sembrare qualcosa di avversivo, si può trasformare in qualcosa di, come dire, in realtà funzionale, importante.
"L'arte del cambiamento": il libro e la rivoluzione.
L'arte del cambiamento, che è il titolo di questa serata, in realtà è il titolo di un libro pubblicato oltre trent'anni fa dal professor Giorgio Nardone e dal compianto Paul Watzlawick, che è stato il maestro del maestro – quindi è un tipo un po' particolare. E quando abbiamo deciso di fare questa conferenza, parlando con il professore è venuto fuori questo titolo, io ho avuto una resistenza. Felicissimo, ma ho avuto una resistenza perché dentro di me ho detto: "Ma sarò in grado di sorreggere un titolo del genere?" Perché nel mondo della psicologia, nel mondo della formazione, "L'arte del cambiamento" – questo testo che vi consiglio di leggere e di rileggere – rappresenta proprio un momento particolare, un cambiamento in tutto quello che era il mondo della psicologia. È proprio come dire una linea di demarcazione tra un prima e un dopo, ed è quello che introduce in maniera proprio tecnica la terapia breve strategica.
Io mi ricordo quando stavo studiando al Centro di Terapia Strategica: iniziai a leggere questo testo e rimasi folgorato – c'è molto di più che Paolo di Tarso sulla via di Damasco, una folgorazione. E se quello leggete, questo testo prevede delle eresie, nella sua accezione di essere liberi di scegliere. Una di queste eresie – e quindi di questi cambiamenti rispetto a tutto quello che era il mondo della psicologia fino a quel momento, della formazione o anche di tante credenze – è stato qualcosa di veramente rivoluzionario, almeno in me.
La rivoluzione del guardare al futuro.
Ovvero: quando dobbiamo affrontare un problema, quando dobbiamo arrivare a sciogliere una situazione che in questo momento ci sta bloccando, la tendenza è quella di andare a scavare nel passato. Ci chiediamo sempre il perché delle cose. Questo fa parte un po' dell'idiosincrasia culturale occidentale. Quindi abbiamo una situazione da affrontare, immediatamente andiamo a pescare nella nostra mente le cause che hanno generato quella situazione. Ed è un controsenso logico, perché il cambiamento dove avviene? Nel passato? Nel futuro? Pensateci: il cambiamento è sempre prerogativa del futuro. Il passato non si può cambiare, mentre noi andiamo a cercare qualcosa che non si può cambiare. Quello che è successo ormai è successo.
In realtà , come dire, c'è un altro piccolo gap logico: nessuno può essere sicuro della causa che ha generato un certo tipo di problema, un certo tipo di situazione, perché se andiamo a scavare in profondità ci sarà una causa che ha generato la causa che ha generato il problema, e poi ci sarà una causa che ha generato la causa che ha generato la cosa che ha generato il problema. Quando ci fermiamo? Quando una teoria di riferimento ci dice che lì ci dobbiamo fermare, o quando la nostra interpretazione ci indica: "Questa è la nostra realtà ". E qua si apre uno scenario particolare: la spiegazione di un fenomeno non è la sua soluzione. Le soluzioni non appartengono al passato, le soluzioni appartengono al futuro. Sono le nostre proiezioni che abbiamo del futuro che determinano le nostre azioni.
E questa cosa, io all'epoca avevo ventiquattro-venticinque anni, ha completamente rovesciato il modo di ragionare. Pensate: l'idea che dobbiamo capire e comprendere il perché delle cose non serve a cambiarle, o serve in minima parte ed è comunque un processo molto lento, mentre orientare i nostri schemi nel futuro, le nostre proiezioni nel futuro, aiuta il cambiamento, aiuta allo sblocco, ci permette di fronteggiare meglio il quotidiano.
Siamo il risultato delle nostre proiezioni future.
Quindi potremmo dire che noi non siamo il risultato delle nostre esperienze passate – o meglio, non siamo totalmente il risultato delle nostre esperienze passate – ma siamo molto di più il risultato delle nostre proiezioni future. Come dire: il presente è influenzato dal futuro molto più che dal passato. E questo, per quanto possa sembrare filosofico, in realtà è estremamente pratico.
Io vi faccio subito un esempio per semplificare. Ieri sera, prima di andare a letto, che cosa avete fatto di quello che si può dire? Una cosa forse... Ok, immaginiamo che avete messo la sveglia. Quindi l'atto di mettere la sveglia per il giorno dopo da cosa era determinato, se non dalla proiezione dell'orario in cui vi dovevate svegliare il giorno dopo? Quando la mattina vi svegliate e prendete la macchina per andare in un posto, è il vostro obiettivo futuro che determina l'azione di prendere la macchina e guidare. Quindi vedete bene che il futuro è molto più presente nel presente rispetto al nostro passato.
Chiaro che le esperienze, il bagaglio di esperienza passata è molto importante perché determina le nostre percezioni e le nostre reazioni – magari molto più istintive su certe situazioni – ed è assolutamente importante. Ma il cambiamento in sé, come anche il raggiungimento di una performance sportiva, la risoluzione di un problema in ambito più clinico, la risoluzione di una situazione in ambito manageriale, artistico, è sempre proiettato al futuro.
Viktor Frankl e la speranza.
Questo è un tema particolare, quello della nostra proiezione nel futuro. Quindi, come dire, cambiare la visuale da "guardo a quello che è successo, mi piango addosso rispetto a quello che è successo" nel voltare lo sguardo verso quello che posso fare, quello che posso cambiare, verso quello che posso realmente realizzare che ancora non ho realizzato.
Vi è un autore che si chiama Viktor Frankl – io vi consiglio anche lui di leggerlo – che in un librettino che si chiama "Uno psicologo nei lager" – lui è uno psicologo che ha vissuto il campo di concentramento ad Auschwitz – nella disamina della sua esperienza, che è lì, nel campo di concentramento, a un certo punto scrive: "Coloro che sopravvivono nel lager sono coloro che mantengono dentro di sé la proiezione del proprio futuro. Coloro che perdevano la proiezione di se stessi nel futuro perdevano certamente la forza di andare avanti e dopo pochi giorni morivano". E dopo un po' continua scrivendo: "Potremmo dire quindi che l'essenza dell'uomo è la sua visione futura".
Questo è particolare perché questo concetto in realtà è trasversale a qualsiasi cultura e anche a tutte le religioni. Perché pensate: se voi avete una proiezione futura, quindi l'idea che qualcosa può cambiare nel futuro, che siete attivi in questo, in realtà di base avete la speranza che questo possa avvenire. E dovete sapere che la parola "speranza" deriva dal latino spes, ma ha una radice aramaica savar che vuol dire letteralmente "tendere verso". Quindi sperare vuol dire tendere verso il futuro, verso qualcosa che ancora non si è realizzato ma che si può realizzare. Infatti la disperazione cos'è? È la perdita della speranza, la perdita del tendere verso qualcosa che può essere realizzato nel futuro. Lì avviene il blocco, lì avviene il problema, lì inizia, come dire, il lavoro per sbloccare questa situazione.
Pensate semplicemente, a livello delle Sacre Scritture cristiane: se io vi chiedo qual è il peccato più grande che ha fatto Giuda Iscariota, tutti dicono "ha venduto Cristo per 30 denari". In realtà si farebbe un po' di giri in purgatorio sicuramente, però in realtà il peccato più grande è stato disperarsi, perdere la speranza che nonostante quel gesto potesse essere perdonato. Ha perso la speranza, si è impiccato e si è condannato.
Quindi vedete che l'idea che il futuro è qualcosa che è presente e che noi determiniamo, come dire, il nostro presente in relazione a quello che possiamo realizzare nel futuro fa parte proprio della struttura dell'essere umano. Ed è anche un'azione operativa che noi utilizziamo nel nostro lavoro quando lavoriamo con i pazienti, quando lavoriamo con gli sportivi: orientiamo sempre la performance verso quello che può essere realizzato nel futuro, quindi la proiezione è completamente differente. Ma questo anche le aziende: quando fanno i piani trimestrali, semestrali, orientano loro stesse, il loro business, in qualcosa che, come dire, è futuro.
Poi l'errore che magari fanno è basarlo sulle esperienze passate come se il passato fosse replicabile. Come dire: un anno e mezzo fa tutte le aziende hanno completamente preso e le loro proiezioni future se le sono buttate nel cestino perché c'è stato un imprevisto, il Covid. Quindi tutta la loro pianificazione è completamente scomparsa.
Chiaro, questo è il problema: il futuro possiamo impegnarci a plasmarlo, a crearlo, ma c'è sempre una variabile di non controllo. Il filosofo Kierkegaard, Søren Kierkegaard, una volta scrisse: "La vita può essere compresa solo guardando indietro, ma può essere vissuta solo guardando e camminando avanti".
La differenza tra chi gestisce il cambiamento e chi lo subisce.
Ora, qual è la differenza tra un soggetto e un altro soggetto, visto che questa, purtroppo o per fortuna, è una dinamica che, come dire, si mantiene? Che piaccia o no, noi siamo condannati ad andare avanti, pensate, condannati – anche se volessimo fermarci, comunque andiamo avanti. Male, ma andiamo avanti.
Ci sono persone che riescono a gestire il cambiamento, ci sono persone che riescono anche a crearlo e cavalcarlo, ci sono persone che il cambiamento lo subiscono totalmente. Vi è una frase molto carina, molto significativa dello scrittore Aldous Huxley che scrive: "La realtà non è ciò che ci capita, ma ciò che facciamo con quello che ci capita". Potremmo parafrasarlo nella serata di stasera dicendo: "Il cambiamento non è ciò che ci capita, ma ciò che decidiamo di fare con il cambiamento che ci è capitato".
E su questa idea di sviluppo futuro che apre la speranza, tante realizzazioni... La parola a colui che di futuri ne ha cambiati tanti, tra cui anche il mio.
Il cambiamento: parola performativa e teoria strategica.
La parola "cambiamento" – dovete sapere che è la parola più inflazionata nel mondo degli studi e delle ricerche. Ogni anno vengono pubblicate centinaia di lavori con focus sul cambiamento. Ma voi pensate semplicemente alle campagne politiche internazionali: Obama proponeva "change", Gorbaciov "perestroika" – che vuol dire cambiamento. Quindi abbiamo avuto anche un nostro politico toscano che parlava di cambiamento costantemente.
Questa parola ha una caratteristica che linguisticamente si definisce "performativa", ovvero è una parola che indica un movimento verso qualcosa. La parola "cambiamento" di per sé evoca il movimento verso qualcosa. Questo è il motivo per cui è la parola più utilizzata da chi vuole ottenere consenso. Quindi bisogna stare attenti quando si usa questa parola perché si può inciampare anche nell'essere ritenuti coloro che vogliono vendere qualche cosa per ottenere consenso.
Quando però, come noi intendiamo, la parola "cambiamento" ci si riferisce alla teoria del cambiamento – vale a dire a quello studio che negli anni Sessanta, poi si evolve negli anni Settanta, condotto proprio da molti ricercatori di cui ovviamente la stella cometa è stato Paul Watzlawick – ovvero studiare come il cambiamento può essere realizzato, ma soprattutto studiare come per realizzare il cambiamento si devono superare le resistenze al cambiamento.
L'omeostasi e la resistenza al cambiamento.
Questa sembra davvero un linguaggio ambiguo, un paradosso, e devo dire che molti – forse la maggioranza ancora dei colleghi studiosi – riescono veramente malamente a digerire questa cosa. Ma voi pensate che il fondatore della fisiologia, Claude Bernard – medico di fine Ottocento – formula il termine di "omeostasi". Omeostasi significa l'equilibrio che l'organismo biologicamente – biologicamente, non psicologicamente – realizza e che tende a mantenere.
Se riflettete, questa si chiama resistenza al cambiamento. Ma l'organismo tende a mantenere degli equilibri realizzati che hanno dimostrato di funzionare. Il problema è che anche quando quell'equilibrio tende a non essere più funzionale, l'organismo lo vuole preservare, resiste al cambiamento. Pertanto dobbiamo pensare che il costrutto di resistenza al cambiamento non ha una matrice puramente psicologica, ma puramente biologica, poi diventa psicologico.
Questo risolve tanti problemi quando tra coloro che si occupano della mente parliamo con coloro che si occupano dei cervelli, i neuroscienziati. E noi, devo dire, come coloro che lavorano il cambiamento – sia terapeutico che di performance che di organizzazione – abbiamo buoni, ottimi rapporti con i neuroscienziati perché il nostro lavoro si basa su qualcosa che loro conoscono.
Voi pensate che il nostro cervello costruisce continuamente circuiti sinaptici che sono il frutto delle nostre esperienze. Quei circuiti sinaptici, una volta che sono costruiti, tendono a mantenersi, a resistere al loro cambiamento, anche quando veicolano risposte totalmente sbagliate o patologiche.
Quando noi vediamo un paziente con un disturbo ossessivo-compulsivo – quelli che mettono in atto rituali che so, per propiziare che qualcosa vada bene o non vada male, o per igienizzare sé dalle infezioni – e voi sapete che in questi ultimi due anni avevano tirato fuori il cartello "noi avevamo ragione, voi avevate torto", anzi questa pandemia ha rafforzato le credenze del disturbo ossessivo-compulsivo. Queste persone costruiscono un equilibrio che poi corrisponde a circuiti sinaptici cerebrali per cui la loro percezione è veicolata sempre costantemente da quella fobia che induce ai loro rituali.
Per cambiare questa cosa dobbiamo riuscire a intervenire non solo cambiando quello schema – come vedremo – ma sostituendo quello schema con un nuovo schema che a sua volta deve diventare un'omeostasi e che a sua volta deve resistere al cambiamento da omeostasi sana.
Il problema delle tentate soluzioni.
Il problema della nostra vita – non solo della nostra di moderni, ma da quando l'uomo esiste – è che non esiste alcun equilibrio che possa mantenersi sano nel corso di tanto tempo. Ma il difetto di fabbricazione che noi abbiamo da un punto di vista psico-biologico è che noi tendiamo invece a mantenere quegli equilibri, quelle cose che ci hanno portato al successo.
Noi in termini strategici definiamo questo "tentata soluzione". La tentata soluzione fallimentare è un meccanismo che si innesca non sulla base – come direbbero gli amici psicoanalisti – dell'istinto di morte freudiano. Al contrario, si basa sul fatto che quel tipo di percezione-reazione ha avuto successo. Siccome ha avuto successo, l'ho sperimentato più volte, diventa un'omeostasi, un equilibrio, e tende a replicarsi e a resistere al suo cambiamento anche di fronte al suo fallimento.
E voi dite: "Ma questo lo vediamo nei pazienti malati". Niente di più ingenuo. La maggioranza delle aziende muoiono di questo. Muoiono del fatto che i leader di quelle aziende continuano ad applicare le strategie che gli hanno dato successo negli anni precedenti senza riuscire ad adattarle, a modificarle con le modificazioni del mercato, l'evoluzione delle produttività , l'evoluzione culturale.
La stessa cosa ce l'abbiamo nell'ambito della performance: artisti, atleti, performer si inchiodano spesso alla loro massima forma di successo, non si schiodano da quella.
E volete l'esempio più dissacrante? Albert Einstein, dopo che lui formulò la teoria della relatività e dopo che i grandi studiosi di Cambridge vent'anni dopo ne dimostrarono la validità , lui nel suo studio a Princeton, negli Stati Uniti, ha continuato a lavorare su questa cosa per perfezionarla, cercando ulteriori effetti e fallendo in tutte le ricerche successive per un paio di decenni. Glielo possiamo perdonare per tutto quello che ha prodotto, però questa è la dimostrazione che persino un cervello e una mente sopraffini possono incappare nella resistenza al cambiamento.
La favola del mulo cocciuto.
Poiché quando noi abbiamo ottenuto successo, la nostra mente codifica quelle strategie che ci hanno dato successo e tende a replicarle. E se non funzionano, la prima risposta è: "Non l'ho applicata abbastanza, devo insistere di più". E se non funzionava: "Devo insistere di più", fino all'effetto più terrificante.
C'è una storiella greca antica – quindi che possiamo definire ellenica – che rappresenta bene questa tragedia. Sapete che tutte le storie elleniche sono tragiche, per fortuna. L'Europa antica si distingue dall'America moderna nel senso che siamo lontani dal lieto fine di Hollywood, siamo più vicini alla tragedia.
In questo senso, la storia è quella di un mulo che con successo tutte le mattine portava da valle a montagna, attraversando un bosco, il carico di legna per poi tornare giù la sera, ricaricarsi la mattina e ripartire. Siccome faceva questo da molti anni, una mattina, dopo una notte tempestosa, trova un albero abbattuto da un fulmine sul suo percorso.
E il mulo – sapete, nelle antiche storie greche gli animali venivano scelti anche per loro caratteristiche: la volpe ne "La volpe e l'uva" viene scelta da Fedro perché la volpe è furba; in questo caso il mulo perché si dice che è cocciuto – e il mulo vede l'albero nel suo percorso e non si ferma, dice "Lui non ci deve stare lì". Quindi tenta una grande capocciata, si fa anche male ma non pensa di aggirarlo, pensa che lì non ci deve stare perché da anni lui fa quel percorso efficace. E insiste: capocciata su capocciata finché il mulo si rompe la testa e muore.
Voi direte: "Ma che storia tragica ellenica, lontana da noi moderni". Badate bene che noi osserviamo cose di questo genere continuamente negli ambiti in cui gli esseri umani cercano di essere migliori. Perché specifichiamo: questo non è un problema dei deficienti, di chi è poco dotato. Questo è il problema molto più frequentemente delle persone dotate che proprio in virtù dei loro successi insistono senza essere capaci di modificare ciò che gli ha dato successo ma che ora gli garantisce il totale fallimento.
L'indagine strategica: dalle cause alle tentate soluzioni.
Quindi quando parliamo di arte del cambiamento, noi parliamo di qualche cosa che prima di tutto – come Stefano ben ha introdotto – evita di andare a cercare le cause del passato di un problema, di un disturbo, di un fenomeno, di un fallimento di performance, ma studia come la persona o le persone o i gruppi hanno cercato di risolvere quel problema senza riuscirci. Nel fare questo si va anche a studiare – eresia dell'eresia – tutto quello che in passato è stato fatto che ha funzionato, perché molto frequentemente è proprio quello che ha funzionato nel passato che conduce a insistere come se dovesse funzionare obbligatoriamente.
E lì troviamo quello che è il costrutto fondamentale del cambiamento strategico, che è la tentata soluzione che invece che risolvere il problema lo complica. Che è una psico-trappola formidabile nella quale la maggioranza degli esseri umani dotati cade continuamente.
E allora questo diventa non solo l'indagine per capire, ma soprattutto l'investigazione per cambiare. Perché se io voglio cambiare una situazione, dovrò focalizzare il mio intervento non sulle cause, non sulle dinamiche complesse, non sui fattori che io posso osservare intorno alla persona o al gruppo, ma su quelle tentate soluzioni che garantiscono la resistenza al cambiamento, che producono fallimento.
Quindi potremmo definire questo un intervento psicologico chirurgico che mira esattamente a dove c'è la disfunzione per eliminarla. E pensate che non è un caso che quando i miei maestri formularono questo modello di problem solving strategico negli anni '70, i primi a prenderselo come modello furono proprio i grandi manager, le grandi aziende. In ambito clinico ci furono molte, molte resistenze e ci sono voluti decenni perché questa cosa sia stata poi accettata in modo non più discutibile o aggredibile.
Perché sapete che nell'ambito della psicologia, della psichiatria, si è sempre pensato che se un problema persiste da tanto tempo, la terapia deve essere altrettanto prolungata e sofferta. Ma questo è un pregiudizio, perché i dati empirici hanno dimostrato che anche se un problema è molto sofferto e persiste da molti decenni, può essere risolto in tempi brevi e risolto definitivamente, senza ricadute – come spesso si viene a dire – o senza spostamenti del sintomo.
Le tipologie di cambiamento.
È chiaro che poi quando parliamo di cambiamenti, dobbiamo distinguere le tipologie di cambiamenti. Ci sono i cambiamenti catastrofici, quelli per cui si inserisce qualche cosa: un cambiamento per cui è come il fulmine che abbatte l'albero, l'albero che cade sull'auto che trova qualcuno dentro – quella è la catastrofe – o l'onda gigante.
Ci sono anche i cambiamenti invece graduali e progressivi, dove io devo partire dal più piccolo cambiamento per produrre il secondo piccolo cambiamento, il terzo piccolo cambiamento.
Ci sono cambiamenti geometrici, esponenziali, dove io lancio la palla di neve lungo il pendio nevoso: se sono fortunato, se l'ho lanciata bene, arrotola, si ingigantisce, diventa sempre più forte, più veloce fino a diventare una valanga.
Ci sono i cambiamenti effetto-scoperta, quando noi possiamo parlare fra di noi a due, più e più, e nel parlare qualcuno volontariamente o involontariamente fa scoprire una prospettiva diversa che ti fa percepire la realtà in modo differente e tutto cambia.
L'esperienza emozionale correttiva.
Io mi ricordo un esempio simpatico che ho citato in un libro del 1994. Sembra una barzelletta ma è un fatto reale. Io tenevo un seminario e uno dei partecipanti a questo seminario – tra l'altro un collega psichiatra – racconta la sua esperienza. Lui era entrato in crisi perché tutte le notti faceva un incubo. L'incubo è che lui veniva braccato da qualcosa che lui non sapeva nemmeno cosa fosse: correva, correva, correva, braccato da questa sorta di – non sapeva nemmeno se un fantasma, una cosa come nei film fantascientifici di quegli anni. Arrivava a una porta e spingeva, spingeva, spingeva per aprire la porta, non si apriva, finché si svegliava nell'incubo.
E lui, da uomo del settore, si rivolge ai colleghi. Prima un trattamento sedativo di sonniferi, ma l'incubo continua. Poi si rivolge a un collega che praticava psicoanalisi freudiana: interpretano questo come il fatto che al di là della porta ci fosse la scena primaria – il padre che possiede la madre – lui non la vuole vedere, quindi la porta non si apre. Ma l'incubo continua.
Poi va da un collega junghiano, i quali gli spiega che questo è un mito antico, per cui lui ha un archetipo, così dicevano, per cui è legato a quel mito. Mentre lui racconta tutto questo in una situazione molto particolare – era dal barbiere dopo uno shampoo, il barbiere sta facendo la barba alla vecchia maniera, gli faceva la schiuma col pennello – e lui in questa sorta di trance racconta queste cose. Il barbiere, sentendo di raccontare queste cose che probabilmente nella sua ignoranza gli sembravano troppo complicate, gli dice: "Ma scusi, ma lei ha provato invece che spingere a tirare la porta?"
Questo sbalza fuori dal letto. Lo dice lui: "Da manca poco mi taglio col rasoio" e impreca, dice "No, mai". Da lì l'incubo finisce.
Ora voi direte: "Ma ci racconta una barzelletta, professore?" No, io vi do un esempio di quello che è il fondamento del cambiamento: esperienza emozionale correttiva. E badate bene, su questo costrutto, dopo ormai decenni, concordano tutti gli esperti. Ormai nessun esperto di psicologia, psicoterapia, psichiatria, di cambiamento strategico in azienda, di cambiamento evolutivo potrete trovare che non sia d'accordo su questo.
L'esperienza emozionale correttiva è quell'esperienza che un soggetto ha in un momento – che può essere casuale, può essere costruito, può essere per una sequenza d'azione, può essere prodotto da tante forme di stimolo – per cui di colpo cambia completamente punto di vista, percezione, vede quella realtà in modo completamente diverso e quindi gli arriva una scoperta, un effetto completamente nuovo e cambia totalmente punto di vista.
La storia di Franz Alexander e Michael Balint.
Voi dovete sapere che il costrutto di cambiamento emozionale correttivo è stato formulato da un collega molto particolare che è Franz Alexander, negli anni prima della seconda guerra mondiale, subito dopo. Faceva lo psicoanalista fra Chicago e Los Angeles perché lui era uno di quei psicoanalisti che lavoravano con le stelle di Hollywood. Ma lui aveva già dato prova della sua intelligenza strategica perché, siccome a quel tempo viaggiava in treno e il viaggio tra Chicago e Los Angeles durava tre giorni, quindi lui si faceva tre giorni di viaggio, poi faceva quattro giorni di lavoro – due a Chicago, due a Los Angeles – quindi in pratica non aveva riposo.
Lui cambia punto di vista e noleggia una carrozza del treno, la costruisce come studio clinico e si porta i pazienti da Chicago: per un po' li tratta, è tutta scena, tornano indietro fino a metà , poi trova quelli che arrivano da Los Angeles che gli vengono incontro, montano e finiscono. Quindi trasforma tre giorni di viaggio in tre giorni di lavoro e poi sta a Los Angeles, si riposa due giorni, a Chicago si riposa due giorni.
Sembra una cosa sciocca, ma sapete che soluzioni di questo tipo in azienda c'è sempre bisogno, perché si inventano cose complesse, complicate e non si trovano più soluzioni semplici. La semplicità non è ridurre la complessità a qualcosa di banale, è trovare la soluzione che ti fa risparmiare energie, tempo, che non rovina la complessità ma che la orienta nella direzione giusta. Ecco.
Questo autore formula questo costrutto sulla base di un libro di un altro suo collega invece psicoanalista – di quelli tosti – Balint, famoso per i gruppi Balint poi istituiti soprattutto nell'ambito medico. In un suo testo "The Basic Fault" – la caduta fondamentale – di una sua paziente che soffriva di un disturbo fobico, la paura di cadere e non rialzarsi, tanto che era sempre irrigidita, sempre controllata.
Un giorno, dopo anni di analisi, la paziente entra nello studio di Balint, inciampa sul tappeto, rotola per terra e torna in piedi spontaneamente. Balint dice: "Dopo questa esperienza la paziente è guarita". Allora Franz Alexander dice: "Se questa è un'esperienza emozionale correttiva" – ti capita in questo caso di inciampare su qualcosa, fare un'esperienza che ti illumina, che ti cambia, scopri di avere delle risorse che pensavi di non avere – quella paziente scopre che può cadere a terra, rotolare, tornare in piedi.
Poi Balint spiega – spende un altro libro a spiegare – che in realtà quello è avvenuto grazie agli anni precedenti di analisi. Come dire, ha capito questo perché ha fatto l'analisi prima. Però qui è la storia dei perché, dei perché, dei perché che nessuno può spiegare.
Franz Alexander dice: "Questa è l'esperienza emozionale correttiva, ovvero quell'evento concreto che fa cambiare la percezione della realtà e che ci permette di vederla da un punto di vista diverso, di avere reazioni differenti che cambiano totalmente". Oggi noi sappiamo, a distanza di ormai 70 anni da quella formulazione – proprio con le sperimentazioni in ambito clinico e non solo – che l'esperienza emozionale correttiva è il fondamento dei cambiamenti, dei cambiamenti in qualunque ambito.
Dall'atleta al manager: creare esperienze che cambiano.
Se io voglio fare in modo che un atleta sblocchi la sua performance bloccata, devo creargli la possibilità di sperimentare concretamente qualche cosa che gli fa scoprire che può andare oltre. Stare lì semplicemente a fargli ricordare le esperienze positive – come spesso accade – a fare associazione tra le esperienze positive: "Visualizza, le visualizza, quelle future..." – delle volte acqua sull'impermeabile, è un'illusione. Mentre il riuscire a fare in modo che inconsapevolmente all'inizio sperimenti qualcosa che gli tira fuori risorse in quel caso non considerate possibili e con l'esperienza cambia totalmente la sua risposta...
Allora, tanto per contestualizzare: ci sono state le Olimpiadi. Io, con senza falsa modestia, sono felice perché sono stato compartecipe – non certo responsabile – di una medaglia d'oro e tre d'argento, che non è poco. Ma la cosa più interessante è che questi quattro grandi atleti, atlete – nel mezzo di loro ce n'è uno che non poteva sulla carta ottenere niente perché è arrivato là devastato fisicamente, con un'anca da operare, una spalla da operare.
Qui posso fare nomi e cognomi perché ormai è diventato un grande amico: Aldo Montano. E Aldo non doveva nemmeno gareggiare. Poiché come l'altro atleta – Samele – si era infortunato nella gara a squadre, è subentrato con – ripeto – una gamba che non permetteva nemmeno quasi di camminare e una spalla – la destra – nella sciabola. E ha vinto tutti gli incontri più importanti portando la nazionale quasi a vincere l'oro, a perdere di pochissimo l'oro.
Ma questo in virtù del fatto che lui ha sperimentato più volte la sensazione che se riesce a spostare l'attenzione dal dolore – facendo tutta una serie di cose che ha imparato a fare – il dolore non viene sentito e la prestazione viene eseguita come se il dolore non ci fosse.
Quando ci siamo conosciuti tanti anni fa – nel 2008 – lui aveva una lesione a un polpaccio, a un tendine, è riuscito a vincere i mondiali senza avere un tendine. L'ortopedico che l'ha operato la settimana dopo ha detto: "Non è possibile che tu hai fatto una competizione senza un tendine". Ma la nostra mente – vedete, questo è molto interessante – è in grado, se creiamo delle suggestioni – e qui entriamo in un ambito molto particolare del cambiamento: suggestioni – è in grado di creare delle sensazioni alla mente, al corpo che vanno anche a sostituirsi a lesioni.
E nella storia non solo dello sport, dell'arte, dei combattimenti, della guerra, ci sono tantissimi esempi di questo.
L'arte non è solo tecnica.
Quindi vedete, l'arte del cambiamento, per essere chiari, non è qualcosa di solo freddo, schematico, ma è qualcosa di molto artistico. E spesso quando si pensa che i cambiamenti si pianificano solo e soltanto a tavolino, a me fa un effetto veramente avversivo, perché il cambiamento si crea sempre costruendolo su certe caratteristiche che inducono al cambiamento, ma calzandolo alla persona, sempre, comunque, al gruppo. Quindi adattando sia la strategia e gli stratagemmi alla persona, ma anche il linguaggio, la relazione, perché dobbiamo persuadere la persona a fare qualche cosa che va oltre quello che fino a quel tempo quella persona ha fatto.
E qui potremmo entrare, come si dice, in ambiti ancora più complessi e anche un po' difficili da spiegare così rapidamente. Ma quello che ci tengo a esprimere in questa serata è che oggi siamo in un periodo dove i cambiamenti si sono dimostrati indispensabili. Le persone non possono più fare esattamente quello che facevano prima sperando che funzioni.
Oggi siamo in un mondo dove, per nostra sfortuna o per nostra responsabilità – come qualcheduno afferma – le condizioni sono profondamente cambiate. E qui si esige proprio la capacità di analizzare le nostre strategie di successo e verificarne la possibilità di replicazione nel presente o di ri-adattamento. Perché in questo momento non si tratta di cambiare tutto, si tratta soprattutto di adattare alle evoluzioni.
Cambiamenti magici e cambiamenti evolutivi.
Finora io ho parlato di cambiamenti apparentemente magici, di cambiamenti rapidi, ma c'è un altro tipo di cambiamento: quello che è sempre al lavoro – l'evoluzione. La rivoluzione, i sistemi viventi, i sistemi sociali, persino la rivoluzione dei sistemi cibernetici – è un cambiamento evolutivo costante. E se non sappiamo adattarci a questo, non riusciremo a cavalcare quello che il mondo evolve e ne rimarremo – come direbbe Darwin – succubi, vittime per incapacità di adattamento.
L'esperienza della pandemia: adattarsi all'imprevisto.
Poi pensate: quasi due anni fa io sono tornato da una sorta di tournée nelle Americhe – 18 giorni dove ho fatto qualcosa come 15 seminari e conferenze in 18 giorni, compresi gli spostamenti tra Nord, Centro e Sud America. Quindi ogni giorno vedevo migliaia di persone dal vivo. E immaginate cosa vuol dire questo in Messico, in Sud America: tutti ti vogliono toccare.
Torno – era esplosa la pandemia, 27 di febbraio – te lo ricordi bene – e mentre tornavo ci sentivamo con i collaboratori. E voi immaginate l'esperienza emozionale correttiva di chi viene da questo viaggio e si trova a ricevere le persone non più dal vivo ma attraverso un terminale, a passare tutte le terapie che dovevo fare vedendo le persone in, come si dice, telemedicina, teleterapia.
Vi posso assicurare che il primo impatto è stato quello che in clinica si chiama derealizzazione: "Ma sono io o un altro? È la realtà vera? Vivo un film?" La cosa che poi è stata straordinaria è che cominciando a sostenere i dialoghi terapeutici online, cercando di ottimizzare quel tipo di comunicazione, è venuto piuttosto naturale, spontaneo cambiare delle modalità comunicative.
Ad esempio, molti ancora si illudono: se io ho una connessione in rete, guardo – e si illudono che il mio sguardo così ci dia contatto con lo sguardo dell'altro, quello che si chiama "eye gazing", il contatto oculare – ma via terminale non esiste, perché lui guarda una telecamera, l'altro guarda la telecamera. Se va bene, altrimenti nessuno dei due guarda la telecamera. Il vostro sguardo non è congiunto.
Quindi, tradotto in termini di pragmatica della comunicazione, si perde il più potente effetto suggestivo: lo sguardo. E non è un cambiamento da poco.
Allora l'adattamento deve essere: se non posso usare così tanto lo sguardo nel creare un'atmosfera suggestiva di cambiamento, cosa posso usare? Posso usare la voce, poi i movimenti della testa, e quindi devo ottimizzare l'effetto voce, l'effetto movimenti della testa.
E questo ha fatto sì che – devo dirvi naturalmente, nemmeno pensandoci, perché poi i cambiamenti importanti avvengono in modo spontaneo, te ne accorgi dopo – nell'arco di poco tempo mi sono reso conto che quella che mi sembrava una derealizzazione stava diventando una realtà completamente nuova, adattiva e funzionale. Perché poi, mio grande stupore, i pazienti rispondevano come se fossero davanti a me nello studio.
Non abbiamo misurato, con mio grande stupore: il primo mese, il secondo mese, il terzo e il quarto mese, l'efficacia delle terapie rimaneva pressoché invariata. Magari si riduceva l'efficienza – ci voleva un po' più di tempo – ma l'efficacia invariata.
Quindi cosa è stato ciò che ha fatto la differenza? Una capacità di cavalcare un cambiamento per una sorta di attitudine al cambiamento sviluppata nel tempo. Quando abbiamo parlato con Stefano Coppini, collaboratori, di questa cosa e mi sono chiesto "Ma come è avvenuto questo?", poi mi sono ricordato di una cosa banale: che da più di vent'anni io facevo già le supervisioni con tutti gli allievi internazionali – noi abbiamo più di 150 sedi sparse nel mondo, dalla Russia al Sud America, al Nord America, a tutti i paesi europei – e le facevo già in videoconferenza. E fare supervisione è un po' come fare terapia.
Quindi c'era già una sorta di inconsapevole addestramento. Ma questo solo per dirvi che i cambiamenti evolutivi sono sempre al lavoro, tutti i giorni. Non ci rendiamo conto, ma attuiamo cambiamenti evolutivi: sono quelli più sottili, quelli più piccoli che sembrano banali, ma che poi ci aiutano nei momenti critici ad avere la capacità di rispondere in modo inaspettato per noi stessi ma in modo adattivo.
Oltre la coscienza: l'educata incoscienza.
Ora, l'altro aspetto fondamentale dell'arte del cambiamento in senso voluto è che soprattutto nella psicologia, della psichiatria, nelle discipline dell'uomo, per decenni si è data troppa importanza alla coscienza, alla cognizione, alla ragione, come se tutto dovesse passare attraverso processi cognitivi basati sulla coscienza, mentre i cambiamenti avvengono per esperienze emozionali. Quindi percezioni che innescano emozioni che inondano poi le cognizioni, la coscienza, ma che prima determinano reazioni.
Per esempio, quando noi abbiamo paura, si allerta l'emozione paura che in millesimi di secondi ci permette di dare una risposta. Se io dovessi pensare prima a scegliere la risposta, arriverebbe in ritardo di minuti. Quindi se inciampo per le scale, mi riprendo in equilibrio, non cado: lo devo all'emozione paura che risponde ai millesimi di secondo. Se ci dovessi pensare, cadrei giù tutte le scale.
Pertanto sappiamo anche che se io voglio innescare dei cambiamenti, devo emanciparmi dall'idea che li devo fare attraverso un procedimento cosciente, ma devo lavorare su quella che noi chiamiamo "educata incoscienza": ti faccio sperimentare qualcosa che ti viene finché ti educhi a farlo, che ti venga.
Come vedete, questa è un'altra prospettiva decisamente eretica, ma che – come la parola "eresia" significa possibilità di scelta – ti fa avere la possibilità di scelta rispetto a teorie e tecniche che si sono dimostrate sul campo scarsamente efficaci, mentre lavorare sulle leve emotive che innescano reazioni prima immediate, incoscienti e poi coscienti si è dimostrata estremamente efficace. E le neuroscienze moderne ne dimostrano proprio la dinamica da un punto di vista proprio neuronale, biologico, quindi non solo psicologico.
Conclusione: cavalcare la propria tigre.
Quindi non voglio tediarvi troppo perché potremmo parlare tutta la notte rispetto a quello che è il cambiamento, a quella che è l'arte del cambiamento, volendo lasciare un po' di spazio all'interazione con voi che così carinamente e gentilmente siete accorsi in questa sede.
Quello che voi dovete tenere a mente è che nulla può essere fatto senza considerare che quella cosa cambierà . E pensate quanto è perturbante questo, perché questo toglie la sicurezza. "Ma allora non sono sicuro di questo? Non sono sicuro?" E questo: noi dobbiamo imparare a essere sicuri del cambiamento e imparare a cavalcare il cambiamento.
Nell'antica filosofia taoista questo significa: impara a cavalcare la tua tigre.
Grazie.
Nessun commento