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Che cos'è il CORAGGIO? Definizione, spiegazione, etimo (origine), in antitesi della Resilienza.

Che cos'è il Coraggio? L'uomo quando non sa, o fa fatica a definire una parola, rischia di appigliarsi a interpretazioni che girano ...

Che cos'è il Coraggio? L'uomo quando non sa, o fa fatica a definire una parola, rischia di appigliarsi a interpretazioni che girano attorno al significato originale, ma senza mai arrivarne alla radice.

Perché le parole hanno SEMPRE una origine, e questa origine la portano con se, nel loro etimo (da essere, radice, origine) il proprio significato originale, quello con il quale sono state create.

Ecco pertanto che analizzando la parola CORAGGIO troviamo che è formata da 2 parti, una radice ed un suffisso: COR (radice) AGGIO (suffisso).

COR deriva dal latino e significa CUORE.

AGGIO deriva da AGIRE ed un suffisso (da latino sub-fixum = posto immediatamente dopo) che sta appunto ad indicare che deriva dal tema di un verbo, quindi una AZIONE, perché i verbi indicano solo azioni.

Pertanto il significato originale, etimologico, di COR-AGGIO è:

AZIONE FATTA CON IL CUORE, oppure AGIRE CON IL CUORE.

Per prima cosa consiglio sempre, sempre, sempre di partire dal significato originale. Questo per avere chiarezza nelle definizioni e chiarezza nel pensiero. Perché questo impatterà trasversalmente sia nella propria comunicazione orale, scritta, quindi anche nelle proprie decisioni e successive azioni che ne deriveranno.

APPROFONDIMENTO

Il Coraggio è l'antitesi della Resilienza moderna.

Detto ciò l'uomo, nella sua più nobile e raffinata arte che indaga le parole ed il pensiero umano, la filosofia, si è domandato più e più volte cosa fosse il Coraggio. In questo video possiamo sentire il preparato, colto, erudito filosofo Diego Fusaro riflettere sul Coraggio e sulla Resilienza viste sotto la lente degli accadimenti contemporanei e come due virtù opposte.

Trascrizione Video

Il tema del coraggio è un tema appassionante direi. Un tema che non è solo squisitamente filosofico, ma che di fatto riguarda anche l'ambito dell'attività dell'uomo comune, del lavoratore, dell'imprenditore, di molte sfere del mondo della vita, e quindi è uno di quei casi in cui la filosofia effettivamente analizza un concetto che poi riguarda la vita di tutti essenzialmente. Parlare di coraggio è piuttosto difficile credo oggi, perché la nostra, mi pare, poter essere complessivamente individuata come un epoca antieroica.

Un'epoca che, comunque la si voglia intendere, si lascia inquadrare secondo altre virtù, ecco. Una su tutte la resilienza è la parola chiave del nostro tempo e tornerò anche su questo tema. 

Ma poi anche difficile da inquadrare in sé il concetto di coraggio. Perché, effettivamente, sembra potersi dire del coraggio quello che Agostino D'ippona, nelle confessioni dice del tempo: 

"tutti sappiamo in cuor nostro cosa sia il coraggio, ma se dovessimo, interpellati, spiegarlo a qualcuno, li principierebbero i problemi, ci troveremmo in imbarazzo." 

È un tema, in effetti, ricorrente nella letteratura filosofica se consideriamo che già nel Lachete di Platone che un dialogo tematicamente dedicato alla virtù del coraggio, che i greci chiamavano "andreia". 

E che quindi forse oggi sarebbe connotata anche come politicamente scorrettissimo, perché "andreia", coraggio, vuol dire virtù dell'uomo [...] e quindi già limite al campo nell'immaginario greco a certe categorie escludendone altre. 

Ecco nel Lachete a un certo punto del dialogo che Socrate conduce con generali dell'esercito dice testualmente, emerge nel dialogo la posizione di Lachete, questo generale che è avvezzo a dare quotidianamente prova del coraggio sul campo di battaglia e si trova in difficoltà poi a definirlo, e dice: 

"mi pare di sapere che cos'è il coraggio, ma non so come questa idea poco fa mi è sfuggita, tanto da non riuscire più aria afferrarla e a esprimerla". 

Ecco, qui tematizzato con la grande sapienza letteraria di Platone la difficoltà che abbiamo ogni qual volta proviamo a definire il coraggio, la virtù sfuggente. Una virtù che sfugge all'intellettualismo, che resiste a ogni tentativo di definizione forse, è che in qualche modo, come se ciò non bastasse, risulta difficilissima da definire anche in ragione del fatto, come ricordavo poc'anzi, che la nostra pare complessivamente potersi intendere come un epoca post eroica e a tratti anche antieroica.

Si aggiunga anche una notazione etimologica: coraggio, che ritorna variamente espresso nelle lingue, nelle lingue europee, allude a una dimensione che essa stessa sfuggente alla sfera propria del concetto e del logos, è la dimensione del cuore. Coraggio significa: agire con il cuore. 

E già questo basta a rendere difficile ogni tentativo di definizione, more geometrico, del coraggio. Se il coraggio è l'agire del cuore diventa molto difficile per la ragione provare a individuarne i modi, le intrisecazioni e perfino la definizione. Quindi è difficile istituire un nesso, potremmo dirla alla maniera greca, tra "andreai" e la episteme, la scienza. 

Anche se poi naturalmente non mancano i tentativi di definizione a partire dallo stesso Platone nel "Lachete", però anche se uno di quei dialoghi detti "aporetici", che non si chiudono di fatto con una soluzione, vengono proposte alcune definizioni, anche interessanti per più per più versi, perché si parte dal campo di battaglia, sembrerebbe il campo di battaglia, essere la scena originaria, diremo freudianamente, del coraggio. Il campo degli eroi, degli eroi Omerici di Achille, e di Ettore, e si arriva poi con Socrate a un tentativo definitorio che estenda l'ambito d'azione del anche al di là della vita propriamente marziale. 

Certamente, dice Socrate, si dà un coraggio nel campo di battaglia ma si dà anche un coraggio nelle questioni pratiche quotidiane, e potremmo dire noi nella vita dell'uomo della tarda cosmopoli contemporanea. Si dà un coraggio dell'impresa, si dà un coraggio dell'attività dell'intellettuale, e così via. Quindi questo è un primo punto su cui bisognerebbe ragionare. 

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Il fatto cioè che parta il coraggio nella sua immagine originaria dal campo di battaglia poi si estenda sempre più. A tal punto che forse più che definirlo il coraggio è facile, da un certo punto di vista, provare a enunciare gesta coraggiose o esempi di personaggi che sono stati coraggiosi: da Spartaco fino ai tantissimi che la letteratura anche già consegnate in eredità, personaggi letterari o personaggi storici.

Però, ecco, se noi vogliamo provare a definire il coraggio, io penso che una buona definizione tra le tante che si possono enunciare, una buona definizione è quella che fornisce Jankélévitch, Vladimir Jankélévitch nel suo libro: "Trattato delle virtù", del 1949, dice che:

 "il coraggio è essenzialmente un inizio sempre ricominciato". 

Il coraggio è la virtù dell'inizio, è un agire con il cuore, come dicevamo, mediante il quale il soggetto sceglie di agire. Quindi di iniziare un ordine causale malgrado tutto ciò che in qualche misura può a vario titolo indurlo a non iniziare quell'azione. Ecco, potremmo dire, cominciare l'azione malgrado "X". Questa potrebbe essere, seguendo il ragionamento di Jankélévitch l'algoritmo del del coraggio, la formula magica del coraggio. Iniziare un'azione malgrado "X" dove "X": può essere la paura, può essere la sconvenienza della situazione, può essere la conseguenza non positiva che potrebbe derivarne e così via. 

Il coraggio è un inizio difficile, un inizio difficile, un inizio che richiede un agire del cuore. Non ogni inizio è semplice, potremmo dire. 

I tedeschi dicono [...] "Ogni inizio è difficile". Noi possiamo più semplicemente dire che: "non ogni inizio è semplice". Ci sono inizi difficili che richiedono un'azione malgrado, ecco, malgrado. In una spontaneità inaugurale che abbia appunto la forza di iniziare ciò che se non vi fosse quella forza non si inizierebbe. 

E questo mi permette già di dire partendo da questa definizione di Jankélévitch, mi permette di dire questo che, il coraggio, nella sua determinazione più generale, è la virtù del cominciamento, ma è una virtù problematica. È una virtù aporetica direbbero i filosofi. Perché alla fine più si prova ad afferrarle più scappa via da tutte le parti, da tutte le parti.

Intanto un primo punto problematico, che riguarda il coraggio, è il suo rapporto con la paura. Anche in una delle relazioni precedenti è stato evocato il tema della relazione fra coraggio e paura ricorderete. Il coraggioso che tipo di rapporto ha con la paura?

A una prima analisi si potrebbe dire: "coraggioso è colui che non ha paura". Quindi una sorta di nesso di mutua esclusione tra coraggio e paura. Se sei pauroso, non sei coraggioso, e se sei coraggioso non sei pauroso. È però le cose stanno in maniera più complessa rispetto a questo modo comune di rappresentarle. Perché in effetti se noi già guardiamo alla etica di Aristotele, all'Etica a Nicoma ma anche all'Etica Eduemo dove si consacrano molte riflessioni al tema dell'"andreia", ecco ci accorgiamo che già per Aristotele il coraggioso non è affatto esente dalla paura. Chi agisce senza paura non necessariamente è coraggioso. Potrebbe anzi essere una formula estrema e quindi deviata di coraggio. Voi sapete che nell'etica aristotelica vi è sempre un giusto mezzo che deve essere rispettato. Aristotele lo chiama "mesotes", il giusto mezzo. Ecco allora che la virtù, "areté", è sempre una "mesotes", un giusto mezzo, rispetto a due eccessi, rispetto a due iperbole. 

Faccio alcuni esempi, essere generosi significa, per Aristotele, donare o non donare secondo ragione o secondo medietà. Non è generoso né chi dilapida il proprio patrimonio, che è uno scialacquatore e non un generoso, né chi invece è tirchio, e quindi non dona alcunché. La virtù della della generosità sta a metà strada, "in medio stat virtus" diranno e latini dopo Aristotele. 

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Ma allo stesso modo il coraggio, è la virtù, è il giusto mezzo tra due eccessi, tra l'eccesso della pusillanimità, potremmo chiamarla così, del dell'essere pavidi, di chi appunto, non agisce, proprio perché anziché agire iniziare l'azione malgrado ciò che può frenarla, sceglie di non agire per paura; e quindi prevale la paura nell'uomo pavido. Ma è ugualmente un eccesso, e una esasperazione in questo caso, il contegno di chi agisce senza alcuna considerazione della paura.

Aristotele fa alcuni esempi, anche ficcanti vorrei dire. Chi si mettesse per mare, con il mare in tempesta, in una condizione di morte certa, non sarebbe un coraggioso sarebbe un pazzo. Come anche dice Aristotele il temere la sofferenza dei propri cari e affrontarla con coraggio significa appunto agire ma con paura. Chi non avesse paura in quel contesto dice Aristotele sarebbe un un pazzo. 

Ho citato il tema della morte perché in effetti quello e poi sempre vero banco di prova ultimo rispetto al vero gesto di coraggio. Perché, certo coraggioso nella vita contemporanea chi agisce malgrado la paura, supponiamo di essere licenziato, la paura di guastare un'amicizia e così via, però la morte è il vero banco di prova del coraggio, in quanto virtù eroica come si diceva. 

Lo dice anche Aristotele l'Etica a Nicomaco: "la morte che è foborotaton" la cosa più paurosa, è il banco di prova con cui si misura il vero coraggio. Quindi questo è un primo tratto paradossale di questa che chiamerei la virtù paradossale. 

Un altro aspetto effettivamente se ci pensate che rende il coraggio differente rispetto a tutte le altre virtù, è che, ed è il tema che discute Platone nel Protagora è che il coraggio è l'unica virtù che può esistere in presenza di opposti, che non sono virtù. Tu non puoi essere un uomo giusto e al tempo stesso essere perfido, essere smodato e così via.

Però invece, dice Platone, puoi essere coraggioso e al tempo stesso puoi compiere azioni riprovevoli. Facciamo un esempio paradossale una SS che muore sul campo, per quanto sia ovviamente condannabile la sua azione, e comunque può essere comunque considerata coraggiosa, o comunque meno indegna rispetto alla SS che non esce dal dal proprio, dalla propria stanza e tortura persone inermi. 

Ecco, perché il coraggio può essere presente anche in compresenza di opposti che virtù non sono; é il tema sviluppato da Platone nel nel Protagora, come dicevo. Quindi è una virtù paradossale per molti versi, per molti versi che appunto possiamo anche enucleare. E dicevo che il coraggio poi si determina in tanti modi. 

I greci che erano molto più precisi, anche semanticamente rispetto a noi, parlavano di coraggio in varie forme. I due poemi omerici, sui quali si fonda la nostra civiltà occidentale, mettono a tema due diverse figure del coraggio, a cui corrispondono anche due diverse parole. 

Vi è il coraggio di Achille che un coraggio estroflesso, di forza, di potenza, di chi affronta il nemico senza differimenti sul campo di battaglia

E poi via il coraggio odiseico di sopportazione. Il coraggio di Achille i greci lo chiamano "alke" che un coraggio ripeto di pura aggressività come quello del leone. E poi invece il coraggio di Odìsseo lo chiamano invece "tlemosune", che potremmo anche tradurre con "coraggio di sopportazione", forse anche con "pazienza". 

Ci sono alcune scene epocali nell'odissea che hanno animato l'intera storia del nostro occidente che ci mostrano appunto Odìsseo che agisce ben diversamente da come avrebbe agito Achille. Al cospetto ad esempio dei Proci nel palazzo di Itaca, Achille chi avrebbe subito sguainato il ferro e avrebbe aggredito i pretendenti sfrontati. Odìsseo invece come sappiamo temporeggia, ma temporeggia non per spirito di sopportazione subalterna, ma per rendere più efficace differendola l'azione. 

E quindi Odìsseo dice, rivolgendosi al suo stesso cuore: "sopporta cuore mio, sopporta cuore mio" perché poi renderemo l'azione più efficace prendendo tempo e organizzandola a dovere. 

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Come anche quando sbattuto dal mare procelloso, che viene utilizzato come arma costante contro Odìssoe dal dal fluente Poseidone, che non può tollerare a Odìsseo il trattamento riservato al figlio Polifemo. Ecco c'è un punto in cui Odìsseo viene esortato dagli dei del mare a buttarsi in mare per raggiungere a nuoto l'isola dei Feaci, invece Odìsseo preferisce pazientare rimanere a bordo della zattera. E c'è un'immagine giustamente celebre con cui Omero paragona Odìsseo a al polipo, al polipo, che si muove a zig zag, si attacca alla roccia, sa pazientare con "fortitudo animi" direbbero i latini. Achille invece avrebbe agito bene altrimenti. 

Quindi ci sono modi diversi di essere coraggiosi. Si può domandare come  farebbe l'etica aristotelica se il coraggio sia un habitus, una predisposizione che si esercita e si matura con l'esercizio. Si può invece domandare alla maniera del Don Abbondio manzoniano, se il coraggio in realtà uno ce l'abbia innato e quindi non possa darselo. È una questione irrisolta e forse irrisolvibile anche questa. 

Si può ragionare su molte altre questioni del tema del coraggio. Si può ragionare su come la filosofia abbia ampiamente conosciuto questo tema, penso a tutta una serie di filosofi che hanno messo a tema il coraggio sono essi stessi stati coraggiosi, come Fichte per dirne uno.

Carteggio invece è il pavido filosofo che preferisce cambiare i propri pensieri, pur di non incorrere nella sorte in cui erano incorsi alcuni, come lo stesso Galilei che avevano osato entrare dissidio con l'ordine spirituale del tempo. E quindi questo è un tema che ritorna variamente nel nostro presente. 

Ecco io se dovessi ragionare sul coraggio oggi, su questa virtù che ha per prerogativa la forza del cominciamento malgrado tutto, direi che nel nostro tempo sembra davvero esserci poco spazio per il coraggio, il quale sembra essere in effetti sostituito da un altro tema a cui si dedica ormai molto spazio a livello giornalistico, mediatico, e ultimamente anche economico politico, ed è il tema della resilienza. Una parola che da qualche lustro è entrata d'imperio nel nostro vocabolario e sulla quale forse non sia ancora riflettuto adeguatamente.

Mi pare di poter dire in termini generali che la resilienza sia l'antitesi del coraggio. Se per coraggio in termini generali intendiamo la capacità la forza d'animo del soggetto che si risolve ad agire nonostante tutto, perché è mosso dall'aspettativa di cose migliori. 

Quindi il coraggio è sempre una virtù del presente ma che si proietta nel futuro, potremmo dire che questo è il regime di temporalità del coraggio: un infuturarsi a partire dal presente, in cui si agisce con forza d'animo. Bene la resilienza invece è una sorta di sospensione dell'azione permanente, è una sorta di scoramento permanente del soggetto che anziché provare ad agire per cambiare le cose, interviene sempre e solo su se stesso, in vista di un adattamento, di un equilibrio, omeostatico si direbbe, di ricerca di adattamento con i ritmi del mondo. 

Quindi, paradossalmente, possiamo dire che la virtù post eroica della resilienza sembra aver rimpiazzato, almeno a livello di ordine del discorso contemporaneo, il coraggio. 

E forse l'immagine di qualche anno fa del comandante della nave, che abbandona la nave che si è schiantata con gli scogli dell'isola può essere l'immagine perfetta del nuovo ordine post eroico contemporaneo, in cui non vi è più spazio per gli eroi. In cui, non per caso, la nostra è l'unica epoca in cui l'unico eroe riconosciuto e la vittima.

Questo è un altro tema degno di attenzione, la nostra epoca post eroica non lascia spazio all'eroe, e da lo statuto di eroe solo alla vittima. Chi è la vittima? È colui, o colei, che ha subito ingiustizie, danni, traumi, e può raccontarli venir riconosciuto nel proprio statuto di vittima, questo è l'unico eroe riconosciuto. Niente più Spartaco, niente più Prometeo, solo la vittima è l'eroe del tempo post eroico contemporaneo. 

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Ecco il tema della resilienza allora mi pare importante da intrecciare con quello del coraggio e lo faccio anche a partire da alcune considerazioni che mi  paiono degne di nota. Intanto la produzione ipertrofica di un discorso che oggi continuamente evoca la resilienza come virtù, non soltanto e non specificamente psicologica, da che la resilienza è in termini disciplinari una virtù, o se preferite una qualità legata all'ambito psicologico nelle scienze umane, tende invece a diventare una sorta di imperativo categorico dell'intera nostra epoca. 

È il tempo del piano di resilienza nazionale, è il tempo della resilienza europea, è il tempo come disse già nel 2005 Tony Blair, dopo gli attentati londinese, il tempo in cui gli Inglesi mostrano grande resilienza. O come disse Obama, dieci anni dopo l'attentato delle torri gemelle, i nostri dieci anni di resilienza. 

Quindi vedete come è pervasivo nel dibattito pubblico. Ancora in occasione della ricorrenza del terremoto dell'Aquila il presidente della repubblica Mattarella ha mandato un'importante missiva di partecipazione del dolore agli abruzzesi parlando proprio di resilienza nel 2020. Quindi vedete la pervasività di questo concetto, che appunto si trova in ogni ambito. 

Se noi facessimo una storia del concetto di resilienza potremmo dire che essenzialmente la resilienza è un concetto che nella modernità compare applicato alla sfera metallurgica. Resiliente e il metallo che compie una duplice dinamica: se sottoposto a un urto esterno lo assorbe, primo movimento, e poi ritorna su se stesso, riconquista la propria figura originaria. Come un materiale che subisce un colpo di martello e poi oltre a non spezzarsi, primo movimento, riconquista gradualmente la forma iniziale. Questa è la dinamica della resilienza. 

Allora già potrebbe valere un un'attenzione ermeneutica il fatto che questo concetto che originariamente, ripeto, era legato alla sfera metallurgica, si sia poi esteso fino a investire la sfera umana, in psicologia, e allargar ad allargarsi a imperativo di un'intera epoca la nostra che ravvisa nella resilienza, uno, se non il principale, valore di riferimento ecco questo è un altro punto interessante forse su cui ragionare, anche in ragione del fatto che se volessimo ritornare a "Le opere i giorni" di Esiodo, l'epoca più bassa della storia umana è l'epoca del ferro, in cui appunto gli uomini stessi diventano di ferro, sono di ferro, e potremmo dire sono resilienti di conseguenza. 

Ma al di là di questo richiamo esiodeo, potremmo anche dire che questa applicazione dell'abito dell'animato all'ambito invece dell'umano propriamente detto forse potrebbe indurre i filosofi a svolgere alcune considerazioni sul vecchio concetto di "Verdinglichung" la reificazione che vuol dire poi di fatto un mondo e cui spariscono gli umani i loro volti, le relazioni umane, dietro la spettrale presenza massiccia delle cose inanimate. La reificazione è il divenire cosa del mondo, il divenire merce del mondo. 

Tema sul quale hanno lavorato autori diversi da Carlo Marx a Martin Heidegger. Martin Heidegger parla proprio del mondo massificato contemporaneo in cui non si esiste, ma si è alla stregua di tutte le cose, e si diventa appunto resilienti, si diventa resilienti. 

Il resiliente in sintesi a differenza del coraggioso, che agisce col cuore, per cambiare, per modificare l'oggetto che gli sta di fronte in vista di sogni di migliori libertà, o di futuri redenti, o di ulteriorità nobilitanti, il resiliente invece colui che anziché intraprendere la fatica di cambiare il mondo oggettivo subisce gli urti di quest'ultimo, e sempre di nuovo, incassa il colpo e ritorna la propria figura originaria, incassa il colpo e ritorna la propria  figura originaria. 

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C'è una, se volessimo dire che Spartaco rappresenta la metafora assoluta, o il personaggio, la dramatis persona del coraggio, potremmo poi dire che per parte sua Donald Duck della Walt Disney, Paperino, incarna invece il resiliente. Cosa fa Paperino nei cartoni della Walt Disney? Continuamente riceve botte su botte e alla fine torna sempre a se stesso, torna sempre alla propria figura originaria. In questo modo insegna allo spettatore che deve ogni giorno ricevere la sua dose di botte tirando avanti. 

Chiudo il mio intervento dicendo che forse oggi avremmo più che mai bisogno di riscoprire la virtù eroica del coraggio e di non essere solo resilienti. Anche perché ripeto la virtù eroica del coraggio una virtù che pertiene agli umani. La virtù metallurgica della resilienza pertiene al mondo delle cose e della reificazione. 

Quindi possiamo forse chiudere questa nostra conversazione evocando l'importanza dell'AGIRE CON IL CUORE.

Quali e quante figure ancora del coraggio ci sono oggi? Ce ne sono molte. Intellettuali che non si piegano, piccole imprese che non si piegano, lavoratori che non si piegano, e così via. Abbiamo delle figure importanti di coraggio da valorizzare e da assumere come maestri come modelli anche nel nostro tempo. Anche se non godono magari della visibilità mediatica e della gran cassa di risonanza mediatica che hanno i residenti.

Noi dobbiamo però forse congedarci dallo spirito della resilienza per riscoprire quello che potremmo chiamare lo spirito del coraggio.

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